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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi 2010-01-31

Perché bisogna impedire lo "sfascio" dell'Eni proposto da Knight Vinke di Marcello Colitti*

Marcello Colitti (Imagoeconomica)

L'attesa di Knight Vinke rischia di essere vana

BLOG / Finanza e potere (di G. Oddo)

L'andamento di Eni in borsa

Continua, fra il silenzio dei politici e del Governo, l'azione di coloro che vogliono distruggere l'Eni. Mi riferisco al piano di smembramento proposto dalla Knight Vinke. Dal denaro che spendono per farsi propaganda sui giornali (italiani e stranieri) si direbbe che si aspettino una remunerazione davvero sontuosa.

 

 

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2010-01-31

Perché bisogna impedire lo "sfascio" dell'Eni proposto da Knight Vinke

di Marcello Colitti*

29gennaio 2010

Marcello Colitti (Imagoeconomica)

L'attesa di Knight Vinke rischia di essere vana

BLOG / Finanza e potere (di G. Oddo)

L'andamento di Eni in borsa

Continua, fra il silenzio dei politici e del Governo, l'azione di coloro che vogliono distruggere l'Eni. Mi riferisco al piano di smembramento proposto dalla Knight Vinke. Dal denaro che spendono per farsi propaganda sui giornali (italiani e stranieri) si direbbe che si aspettino una remunerazione davvero sontuosa. La cosa non sembrerebbe degna di considerazione, dato che tutti i paesi considerano la loro, o le loro, compagnie petrolifere come la luce dei loro occhi. Basta ricordare come reagì la signora Tatcher, una che di mercato se ne intendeva, alla proposta dei kuwaitiani di entrare nel capitale della British Petroleum. Non solo ai kuwaitiani fu impedito di raggiungere il 30% che sognavano di comperare, ma furono anche costretti a rivendere le azioni che avevano comperato.

L'Italia però, si sa, è sempre diversa. Forse i promotori dello sfascio dell'Eni fanno conto sul proverbiale autolesionismo nazionale. Questi signori propongono, anzitutto, di togliere all'Eni il gas naturale: proprio quello su cui la compagnia è nata, su cui ha creato una delle infrastrutture più efficienti del mondo. Se ciò accadesse, la parte petrolifera internazionale dell'Eni, indebolita dalla mancanza del flusso di cassa del gas, non avrebbe altro da fare che cadere nell'orbita di una qualche multinazionale. Si chiuderebbe così, ignominiosamente, il tentativo dell'Italia di tutelare i propri interessi di importatore di energia.

E il resto dell'Eni – la rete di distribuzione in Italia, la raffinazione e la petrolchimica, la ricerca scientifica, l'ingegneria – che fine farebbe? Non si sa con precisione. Ma certamente senza il gas la compagnia non sarebbe in grado di mantenere una struttura industriale complessa.

Ci sono stati nella storia precedenti molto chiari. Parecchi anni fa, la più grande impresa chimica europea, la famosa Imperial Chemical Industry, cominciò un processo elegantemente chiamato di "demerger" che voleva dire la vendita della parte farmaceutica. Dopo qualche anno, dell'ICI non è rimasto neanche il nome.

 

Tante buone ragioni per dire no

L'assurdità del piano di smembramento dell'Eni proposto dalla Knight Vinke è così visibile che, se l'Italia avesse un sistema politico normale, nessuno lo prenderebbe sul serio. Ma ciò purtroppo non è. E allora bisogna dire con chiarezza che questo progetto è da respingere, in toto. Vi sono parecchie buone ragioni per farlo, riguardanti l'interesse del paese e non quello di un gruppo più o meno largo di azionisti. In primo luogo, il metano è il combustibile del prossimo futuro: lo dice la ripresa della produzione negli Usa; il ruolo che il gas ha conquistato di primario combustibile per la produzione di calore, industriale e domestico; le preoccupazioni sulla sicurezza degli approvvigionamenti europei e le misure proposte per rimediarvi; lo dice lo sviluppo del trasporto di gas via mare, che porta concorrenza sul mercato. Lo dice, infine, l'importanza che al gas danno le grandi multinazionali, che si vanno impegnando a costruire metanodotti internazionali. Cosa che l'Eni fa da quasi trent'anni.

Togliere il gas naturale all'Eni vuol dire tagliare una gamba alla compagnia, toglierle un flusso di cassa rilevante, ridurne l'ampiezza operativa, la capacita' finanziaria. E con una gamba sola non si puo' che cadere.

L'integrazione fra settori industriali è la struttura di base delle imprese, e le piu' grandi e potenti sono proprio quelle che operano in diversi settori, con prodotti diversi anche se complementari, come sono il gas e il petrolio. A chi andrebbe l'impresa del gas che dovrebbe nascere dalla scissione dell'Eni? A quella cosa nebulosa che si chiama mercato, cioè alla Borsa, esposto alla speculazione? O a qualche personaggio accetto ai politici che attende dietro le quinte? L'esperienza dice che quando un processo di sfasciamento comincia è difficile fermarlo ed è normalmente in grado di arrivare alla conclusione, cioè alla scomparsa dell'impresa.

Ci si deve preoccupare dell'economia italiana, della posizione dell'Italia sul mercato internazionale e della capacita' del paese di riprendere un ritmo di sviluppo che ci permetta di uscire dalla stagnazione. Dopo l'amputazione, l'Eni non avrebbe più ragione di lavorare per il proprio paese. Diventerebbe una compagnia senza patria. Il che, nel campo petrolifero, dove gli accordi per la ricerca e la produzione sono negoziati con l'appoggio fattivo dei Governi, è privo di senso. Il lungo lavoro fatto dall'Italia per diventare un giocatore nell'economia mondiale finirebbe nel nulla.

Il nostro è un paese importatore di energia. E la sicurezza degli approvvigionamenti è in tutto e per tutto basata sulla capacità di muoversi sullo scacchiere mondiale con un minimo di potere e di mezzi finanziari: capacità che oggi risiede nell'Eni e che andrebbe perduta.

Cosa significa per l'Italia restare senza l'Eni

Senza un Eni potente il paese non avrebbe nessuno a rappresentarlo ai tavoli su cui si negoziano gli accordi che regolano il sistema mondiale delle fonti di energia. E' più importante che gli azionisti comperino ognuno una nuova auto giapponese o un'altra villa al mare oppure che l'impresa sia in grado di sviluppare la propria azione nel campo delle fonti di energia? Una grande impresa è uno strumento che produce occupazione e ricerca, crea nuove tecnologie, sviluppa attività a livello mondiale, perché ha la forza di sedere a quei tavoli dove ogni tanto si definiscono le spartizioni delle risorse naturali. L'Eni è l'unica azienda italiana importante in un settore che non è esagerato definire strategico. Ed è interesse precipuo del paese proteggerla e farla sviluppare. La sua crescita negli anni ha realizzato il sogno degli italiani della mia generazione di costruire una grande impresa petrolifera, adesso minacciata dalle cupidigie di tanti che non l'avrebbero mai saputa costruire .

Quello che io considero lo sfascio dell'azienda avrebbe effetti micidiali su tutta l'economia nazionale. Il complesso di imprese che si è formato per servire l'Eni di beni e servizi industriali, in particolare per l'area mineraria, perderebbe il suo principale cliente, con risultati facili da prevedere. Inoltre, dividere un'impresa grande in piccole e medie significa – lo dice l'esperienza – perdere almeno il 30% della forza lavoro. Le nuove imprese partono snelle e senza carichi eccessivi. Un Eni con una gamba sola non avrebbe più la possibilità di mantenere il livello attuale di ricerca scientifico-industriale, facendo perdere al paese uno strumento importante per tenere almeno una posizione di parità con gli altri campioni della tecnologia mondiale. S'aprirebbe un'emorragia di lavoratori qualificati.

Questo sfascio sarebbe giustificato con un maggior numero di imprese presenti in Borsa e una promessa di maggiori dividendi. Ma quando mai imprese più piccole hanno dato dividendi maggiori e più stabili di quelle grandi? Non è proprio nelle grandi dimensioni e nella multisettorialità dell'impresa la migliore garanzia di successo e di dividendi adeguati e costanti? Sembra, questo, un modo per nascondere ben altro, e cioè il fatto che le società che propongono questo genere di operazioni fanno un sacco di soldi preparando le nuove entità ad entrare in Borsa a tutto vantaggio della miriade di consulenti, operatori finanziari, garanti che fluttuano intorno a questi piani di smembramento.

* Colitti, oggi in pensione, ha lavorato nel gruppo Eni fin dai tempi di Enrico Mattei, ricoprendo tra l'altro la carica di presidente di Enichem e di Ecofuel

29gennaio 2010

 

 

 

 

 

Eni: l'attesa di Knight Vinke rischia di essere vana

di Giuseppe Oddo

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Eric Knight, fondatore dell'omonima società di gestione che ha proposto al mercato lo "spezzatino" dell'Eni in due nuove entità societarie - una specializzata nel gas naturale, l'altra nell'esplorazione e produzione di idrocarburi - spera che la compagnia guidata da Paolo Scaroni si pronunci in modo ufficiale sul suo piano di scorporo. Ma l'attesa rischia di essere lunga, se non vana. Scaroni ha dichiarato in una recente intervista che qualsiasi ipotesi di scissione del trading del gas è esclusa. Questa attività consente infatti all'Eni di intrattenere relazioni privilegiate con primari paesi produttori come Russia, Algeria, Libia e Egitto, non solo acquisendo contratti di importazione di lunghissimo termine, ma anche rilevando concessioni minerarie o quote di partecipazione in giacimenti. Diverso potrebbe essere il discorso per le attività regolate, in cui l'Eni è presente attraverso Snam rete gas, che ha da poco incorporato Italgas (distriduzione) e Stogit (stoccaggio). Secondo Scaroni, in questo campo il gruppo del "cane a sei zampe" ha un approccio non dogmatico, vale a dire possibilista. Né un no né un sì, insomma, ma solo un cauto e diplomatico "parliamoci", "confrontiamoci" nell'interesse dell'azienda e degli azionisti. Anche perché l'ultima parola spetterebbe comunque allo Stato, cioè al governo, cioè al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che tramite il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti è l'azionista di controllo dell'Eni, con il 30 per cento. Finora il ministro non s'è espresso, né risultano presentate interrogazioni parlamentari sul caso, come succedde spesso per le vicende che riguardano l'Eni. "E se il Tesoro non è d'accordo è a mio avviso quasi impossibile che l'operazione si faccia", dice l'avvocato Dario Trevisan, il cui studio legale è il principale punto di riferimento per l'Italia dei fondi esteri che vogliono essere rappresentati alle assemblee degli azionisti.

Per questo Eric Knight ha scelto di parlare direttamente al mercato rendendo pubblico il suo piano di scorporo dell'Eni con due inserzioni a pagamento apparse nelle scorse settimane sul Financial Times e sul Sole-24 Ore. Aggiunge Trevisan: "Ritengo che la partita si giocherà molto sul piano mediatico, a livello di opinione pubblica. Del resto, se si vuol fare, un'operazione del genere non può che essere fatta in grande stile". E' soprattutto attraverso i media che Eric Knight – padre italiano, madre olandese, studi in Gran Bretagna – dovrà cercare di attrarre a sé l'insieme degli stakeholders: non solo i soci dell'Eni, ma tutti quelli che a vario titolo possono influenzare l'attività e l'andamento dell'impresa, dal personale ai sindacati, dai fornitori alle banche e via discorrendo.

La Knight Vinke sostiene che la convivenza in un'unica società dell'attività di trading- trasporto-distribuzione di gas e di esplorazione-produzione di idrocarburi sia all'origine della sottovalutazione dell'Eni in Borsa rispetto alle quotazioni delle principali imprese del settore. Si tratta ora di provarlo concretamente. "Solo se riusciranno a convincere che quello che dicono è vero si tireranno dietro il mercato", conclude Trevisan.

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Dal sito internet

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27/11/09

Eni, i magistrati denunciano maxievasione su 111 miliardi di metri cubi di gas

Ridotta a un colonnino su quasi tutti i quotidiani, ingolfati dal crack di Dubai e dalle rivelazioni del pentito Spatuzza, leggiamo la notizia, diffusa ieri dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano, sulla "notifica di dodici avvisi di conclusione indagini per illeciti nella gestione dell'approvvigionamento di gas naturale". Nell'ambito dell'inchiesta - si legge nella nota un po' paludata delle Fiamme Gialle - "risultano anche indagati alcuni alti funzionari del più importante operatore di settore a livello nazionale di commercializzazione del gas naturale, oltre ad altre due imprese estere dello stesso gruppo societario, per aver omesso di presentare le dichiarazioni annuali di consumo relativo ai quantitativi di gas naturale introdotti ed estratti da alcuni gasdotti per gli anni dal 2003 al 2007". E chi è questo "importante operatore di settore a livello nazionale"? Ma che sbadati, è il gruppo Eni, il quale opera nel gas sia direttamente, attraverso la divisione Gas & Power, sia tramite la controllata Snam Rete Gas. Questa possiede la rete dei gasdotti (dove transita la produzione nazionale di metano e quella di importazione, proveniente da Russia, Algeria, Libia, Olanda e Norvegia) e provvede al "dispacciamento", al trasporto e allo stoccaggio del gas. Parliamo di un'azienda strategica, quotata in Borsa al pari dell'Eni, sottoposta alla vigilanza di un'Authority, il cui azionista di maggioranza è indirettamente lo Stato, essendo il 30% del gruppo del "cane a sei zampe" ripartito tra ministero dell'Economia e Cassa depositi e prestiti.

 

Insomma, una società pubblica che opera in un settore regolato (Snam Rete Gas) e il suo azionista di maggioranza (Eni), un gigante da oltre 67 miliardi di capitalizzazione, sono accusati di aver trafficato sull'import di metano e alcuni dirigenti del gruppo risultano indagati anche per ostacolo alla vigilanza, ossia per la mancata osservanza degli "obblighi di comunicazione circa le reali movimentazioni di gas poste in essere all'Autorità per l'energia". Già questo basterebbe a scrivere, non un articolo, un istant book. Invece si sacrifica il tutto in poche righe in nome dell'emergenza finanziaria.

Per carità, l'accusa della Procura di Milano è tutta da dimostrare, e non si può escludere che i pm titolari dell'inchiesta (Letizia Mennella e Sandro Raimondi) abbiano preso un granchio colossale. Ma si può ignorare per questo una vicenda dai contorni così oscuri?

Non sono proprio spiccioli i fondi frutto della presunta evasione. Dalla ricostruzione del flussi di metano trasportati da Snam RG - scrive nella stessa nota la Guardia di Finanza - è emersa da una parte "una sottrazione complessiva all'accertamento per 20 miliardi di euro relativi a 111 miliardi di metri cubi non dichiarati di gas naturale" e dall'altra "una sottrazione al pagamento delle accise per un miliardo e mezzo di metri cubi di gas, pari a 226 milioni". Se l'accusa si domostrasse vera, l'Eni dovrebbe restituire allo Stato 20 miliardi per mancate imposte (su 111 miliardi di metri cubi di gas trasportato dal 2003 al 2007 e sottratto all'accertamento dell'Agenzia delle dogane) più altri 260 milioni. Si tratta di quatità molto ingenti se pensiamo che i consumi nazionali annui di metano sono oggi nell'ordine dei 90 miliardi di metri cubi.

Ora, si sa come vanno queste cose. Anche i soci della lussemburghese Bell, la holding che deteneva il controllo di Telecom Italia, erano stati colpiti nel 2007 da una megamulta dell'Agenzia delle entrate per un ammontare di poco inferiore a 2 miliardi. Poi, dopo il ricorso, la cifra è scesa a 156 milioni, ma parliamo comunque di una somma più che ragguardevole. Se pensiamo alle somme in gioco nel caso di Eni-Snam, l'accoglimento da parte del giudice della tesi dell'accusa potrebbe avere, nel lungo periodo, ripercussioni pesanti sui conti del gruppo.

Particolari interessanti affiorano qua e là dal "415 bis" sulla modalità e sugli attori della maxievasione. Per esempio, i quantitativi di gas naturale sottratti all'accertamento fiscale o alla comunicazione all'Authority, oltre che "giacenti all'interno della rete di Snam", derivavano da rapporti commerciali con due imprese estere: la compagnia petrolifera croata Ina (con cui Eni ha una partecipazione paritaria nel consorzio InAgip, che produce gas nelle acque croate dell'Adriatico) e la società slovena di Stato Geoplin. Ingenti quantitativi di metano provenienti dalla Croazia transitavano dai punti di ingresso Eni e Snam RG di Ravenna, Casalborsetti e Falconara senza alcuna informativa all'Autorità di settore. Una violazione che se fosse dimostrata sarebbe particolarmente grave. Il gruppo Eni, infatti, deve rispettare per legge una serie di tetti (volumi immessi in rete e volumi venduti non possono superare determinate soglie) per garantire la concorrenza nel settore. Venivano altresì sottratti ad accertamento fiscale flussi provenienti dal gasdotto Trasmed (non a caso un avviso di garanzia è a carico del rappresentate italiano di questa pipeline, l'algerino Mohamed Mazari Boufares, per vicende che risalgono al 2003), dal gasdotto Greenstream (tra la Libia e l'Italia) e da alcune piattaforme Eni in Adriatico.

E ancora: nella stazione di Mazzara del Vallo, in Sicilia, che registra i flussi di gas in arrivo via Trasmed dai giacimenti algerini, " vi sono elementi primari di misura di tipo illegale". Tutta la catena di misura dell'impianto - prese di pressione, rubinetti d'intercettazione, sonde termometriche, termometri digitali, trasduttori di pressione - è "in difetto del prescitto requisito di sicurezza metrologica" secondo cui gli strumenti "debbono essere provvisti dei sugelli tali che la loro presenza tolga la possibilità di alterazioni", vale a dire di sigilli di piombo marchiati dalla Dogana. A ogni rubinetto del medesimo impianto "...era stata lasciata una certa libertà di rotazione e quindi erano tutti privi di qualsivoglia tutela".

Ci chiediamo: che direzioni ha preso il fiume di denaro frutto della presunta maxievasione? Se fosse dimostrata l'ipotesi accusatoria, secondo cui i sistemi di misura non sarebbero stati in regola con la normativa internazionale già a partire dal 2003, ossia dalla gestione Mincato dell'Eni, bisognerebbe sapere dove sono finite queste somme. Sono rimaste nel gruppo o sono finite all'etserno? Aspettiamo di saperne di più dagli atti depositati dai due sostituti procuratori.

 

 

 

 

 

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